- di Armando Pascale – Il Democratico -
Libertà è una parola densa di significati, talvolta ridondanti. Al grido di questa parola, opportunamente declinata un po’ in tutte le lingue si sono compiute le grosse rivoluzioni di cui questa epoca è figlia. Libertà è una di quelle parole di cui senti l’eco provenire dal vorticoso incedere della storia. La libertà personale, si sa è uno dei cardini della nostra architettura costituzionale. Essa è consacrata dall’articolo 13 della nostra costituzione che la proclama “inviolabile” e ne assoggetta la limitazione a motivi previsti dalla legge da verificare necessariamente in sede giurisdizionale. Tutte le sedicenti “nazioni civili” contemplano meccanismi più o meno analoghi. I popoli anglosassoni furono, invero, i precursori nell’avvertire l’esigenza che tutti gli uomini fossero garantiti dagli arbitri della autorità regia: risale infatti al medioevo la grande tradizione costituzionale inglese, che in documenti che si perdono nella notte dei tempi quali la magna carta o la petition of rights cristallizzarono l’esistenza del diritto di “habeas corpus” in capo a ogni suddito del regno. Gli stati uniti, che amano vedere nella loro genesi la più grande affermazione della libertà nella storia umana non potevano essere da meno e così nel 1791, si giunse all’adozione del Bill of rights che contemplava le libertà basilari dei cittadini della federazione. Con la rivoluzione francese vengono a cadere gli ultimi residui dell’assolutismo e il costituzionalismo europeo si fa profeta di valori nuovi surrettiziamente ereditati dalla tradizione giusnaturalista. Che però questo processo storico si sia concluso, è più che lecito dubitare. Quando nel 1992 Francis Fukuyama rispolverava tralaticiamente la dottrine della “fine della storia” di marca hegeliana aveva sicuramente in mente l’apogeo delle democrazie liberali sullo scenario mondiale quali risultato univoco del divenire. Peccato però che il XXI secolo era ancora al di là da venire, esso ha portato seco nuove situazioni emergenziali quale quella terroristica. I tre principali attentati di questa decade ormai tramontata (gli attacchi dell’11 settembre, quelli alla stazione atocha di Madrid del 2004 e quelli londinesi del 2005) hanno rispolverato un inquietudine che i ruggenti anni novanta avevano sopito. La consistenza di attacchi che mettono in pericolo l’esistenza di ordinamenti e della “civiltà occidentale” hanno dato adito all’utilizzo di mezzi di reazione che, eufemisticamente, possiamo definire, poco ortodossi. Il primo paese a fare le spese di tali misure Draconiane sono stati gli Stati Uniti: proprio nella “terra dei liberi e patria dei coraggiosi” la concitazione seguita ai tragici fatti dell’11 settembre, ha portato l’amministrazione Bush ad affrontare il problema in maniera irrazionale. Pochi giorni dopo gli attentati il Presidente firmò il Uniting and Strenghtening America by Providing Appropriate Tools ti Intercept and Obstruct Terrorism Act of 2001, mediaticamente conosciuto con l’infelice acronimo di Usa Patriot Act. Questa legge avrebbe dovuto rafforzare i mezzi di sicurezza interni per prevenire la commissione di nuovi attentati sul suolo statunitense, ma a detta di autorevoli osservatori e di organizzazioni per la salvaguardia dei diritti dell’uomo la legge ha determinato l’unico effetto di comprimere in maniera inaccettabile alcuni fondamentali diritti e libertà dei cittadini. Le perplessità sollevate da vari ambienti giuspolitologici americani e non, ha avuto il definitivo avallo della giurisprudenza statunitense: nel 2007 la corte suprema degli Stati uniti ha dichiarato la parziale incostituzionalità del Patriot Act. In realtà il Patriot Act altro non fa che agitare l’antico spettro della dialettica tra la libertà e la sicurezza, della nazione che per difendere i suoi principi fondanti finisce per negarli. Ma siccome è noto che “il sonno della ragione produce mostri”, questa legge non è l’unico frutto aberrante partorito negli anni dell’amministrazione Bush. Sotto il profilo più propriamente esterno le immagini dei prigionieri rinchiusi in condizioni disumane nel “Camp Delta” di Guantamo resteranno un triste retaggio di questo principio di secolo. In questo carcere situato geograficamente sull’isola di Cuba, ma per una bizzarra contesa tra l’isola di Fidel Castro e gli Usa divenuta “terra di nessuno”, gli usa hanno deciso di ubicare ivi una zona franca priva di Giurisdizione alcuna. Tra il 2002 e il 2008 diverse centinaia di prigionieri catturati tra l’Afghanistan e il Pakistan sono stati deportati sull’isola caraibica. Al duro regime carcerario si sono accompagnate pratiche marcatamente inquisitorie (si pensi al famigerato Waterboarding, o simulazione di annegamento) per estrapolare informazioni utili per sradicare la rete dell’errore. Si badi bene, ad essere rinchiusi a Guantanamo non vi sono solo i “pezzi da novanta” di Al Qaeda ma taluni soggetti,di cui è lecita dubitare la gravità degli indizi a carico. A corollario di questa situazione si pone la totale mancanza di accesso a strumenti di difesa giudiziali. I Report dei giudici federali hanno statuito che “Guantanamo non è territorio Usa, né i detenuti sono cittadini americani, pertanto non hanno diritto alle garanzie procedurali previste dalla Costituzione” e anche che “non essendo possibile inquadrare in componenti di forze armate di uno stato nemico non è ad essi applicabile la normativa internazionale sui prigionieri di guerra nota come Convenzione di Ginevra, essi sono dei semplici enemy aliens, dei combattenti nemici.” Enemy aliens, una nuovo status di pretoria origine che pretenderebbe di salvaguardare le libertà americane negandole in radice. Oggi, a metà mandato dell’Amministrazione Obama qualcosa sembra muoversi ma sembra, non senza subdoli giochi di palazzo diplomatico. È notizia di questi giorni infatti, che tra i vari file “highly confidential” diffusi da Wikileaks vi siano dispacci relativi a bozze di accordi tra gli Usa ed altri paesi per l’accettazione di prigionieri di Guantanamo che verrebbero a godere di un regime carcerario più mite e, soprattutto della celebrazione di un giusto processo. Ad ogni modo taluni mesi fa il Presidente Obama ha annunciato che alla chiusura del carcere di Guantanamo (disposta con un executive order del gennaio 2009 e rimasta ancora inattuata) farà seguito il processo dei sospettati di essere stati ai vertici di Al Qaeda. Il processo, ironia della sorte dovrebbe avere luogo a New york, a pochi metri da Ground Zero. Lì nella “terra dei liberi e patria dei coraggiosi”
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